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Le truppe piemontesi sconfitte, fuga a Milano.

 

   Dopo alterne vicende, sconfitto definitivamente presso Custoza, Carlo Alberto, tenta di concludere una tregua con Radetzky. Fallita la trattativa il 27 luglio, da ordine di levare il campo; si muove verso l’Oglio dove arriva intorno a mezzogiorno del 28 luglio, successivamente diviso l’esercito “in tre colonne si avvia verso Cremona”.  

Scrive Ulderico Grottanelli che a tutto l’esercito, compreso i volontari che assediavano Mantova, fu dato l’ordine di abbandonare immediatamente le posizioni e di ripiegare su Paullo, distante circa 130 chilometri. Il 3° reggimento lombardo di linea raggiunge il 28 luglio il fiume Oglio, prosegue immediatamente per Cremona, Pizzighettone e infine Lodi, dove arriva il 2 agosto. Abbandonata rapidamente anche questa città, il reggimento raggiunge Milano il giorno 3 agosto. Tra Mantova e Lodi ci sono circa 130 chilometri di strade polverose e non agevoli. Percorrere questa distanza in soli 5 giorni, ad una media di circa 25 chilometri al giorno, suggerisce l’idea di fuga, piuttosto che un ordinato ripiegamento. Non è un caso che durante la precipitosa ritirata, la maggior parte dei volontari, e interi battaglioni delusi e abbandonati, getteranno le armi “e si spargevano per le strade a sgomento e confusione dei popoli" [1], che solo pochi giorni prima li avevano gioiosamente accolti.  Pochi saranno i volontari che non getteranno le armi, tra questi, come scrive Grottanelli, Pietro Pacciarini.

   Le prime voci allarmanti sull’esito delle battaglie che si stavano combattendo sul fronte del Mincio giungono del tutto inaspettate a Milano, gettando lo sconforto tra le diverse autorità civili, militari e la popolazione.

 “Alla fiducia, alla spensieratezza succedevano l’allarme e lo spavento si diffondeva per la città, dandole un aspetto agitato e sinistro [2]”.

   Molti, compreso che l’esercito piemontese era stato battuto, cominciarono a lasciare la città, prima dell’arrivo degli austriaci. Tra questi, alcuni membri della famiglia Venosta, in particolare lo scrittore Giovanni, sua madre e la contessa Sormanni.  Scrive Visconti Venosta [3]: quando gli austriaci tornarono a Milano, molti di coloro che avevano partecipato ai tumulti del 1848, dovettero fuggire. Lui e alcuni membri della sua famiglia, presero la ferrovia fino a Monza e da lì con “alcuni legnetti”, si avviarono verso Como e la Svizzera. Il tragitto fu non senza pericoli perché sia nei paesetti incontrati, sia ai bordi della strada, si ammassavano:

“turbe di contadini che… aveva l’aria di popolazioni insorte più che di gente che accorresse alla difesa della patria. Da quelle turbe partivano voci minacciose… salutati dalle grida di: morte ai signori…”.

   Aggiunge Giovanni Venosta:

“ai signori imprecava anche una canzone che udivo cantare… né a Marian né a Cantù/i tedesch ghe tornen pù/ e crepa i sciori [4]

   Questo era il clima di disfattismo e disperazione che si era in breve tempo diffuso ovunque, esso contrastava clamorosamente con la gioia che la vittoriosa rivoluzione aveva suscitato nei più, solo qualche mese prima. Le modeste strofette della canzone lasciano intuire che la popolazione contadina della “campagna profonda” non era stata molto favorevole alla rivoluzione, fatta salva la fiammata patriottica iniziale. In generale i contadini non erano contro il governo austriaco, certamente lo temevano per la sua severità, ma lo rispettavano.

​

Carlo Alberto abbandona la città.

 

[1] Ibidem; pag 221

[2] Visconti Venosta, op.cit. pag.158

[3] Giovanni Visconti Venosta, ricordi di gioventù, cose vedute o sapute; 1847-1860, MILANO, TIPOGRAFIA EDITRICE L.F. COGLIATI, Corso di Porta Romana, 17, 1904; pagina 163

[4] Ibidem, pag. 150-151

Popoli
Nota 1
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