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Carlo Alberto abbandona la città.

 

   Carlo Alberto, alla testa del suo esercito sconfitto, raggiunge velocemente Milano con l’obiettivo di salvare almeno “la conquista” fatta, vale a dire il diritto che pensava “acquisito” dell’annessione della città al suo regno. Ma ormai era troppo tardi. Pressato dagli austriaci il re che non vuole difendere la città. Concorda, all’insaputa di tutti, la resa con il comandante in capo delle truppe austriache, il sessantacinquenne Josef Radetzky:

“perché l’interesse d’una convenzione siffatta era reciproco [1] ”… pensava Carlo Alberto.

In realtà, la resa era esclusivo interesse del re piemontese, sia per la sua personale salvezza, che per quella del suo regno.

   I milanesi, che da soli pochi mesi prima avevano sconfitto gli austriaci, non avevano affatto perso la fiducia nella possibilità di vittoria, anche perché ora erano ben armati. Ma inaspettatamente, all’alba del giorno 5, il re fa convocare a casa Greppi i municipali, il comitato di difesa e i capi della guardia per comunicare loro l’abbandono della città.

   La notizia si sparge immediatamente, ovunque scoppia la rabbia dei cittadini che traditi si ribellano:

“le carrozze già preparate per la fuga del re, furono capovolte per chiudergli il passo, i generali che s’affacciano alle finestre… furono accolti a fucilate”. Pare che lo stesso re sia rimasto ferito di striscio alla gola.

   La folla tumultuante chiama Il re a confermare la promessa di difendere Milano, allora:

“…usciva Carlo Alberto sulla loggia…e grida… io rimango co’ miei figli”. La sera stessa, tradendo la fiducia dei cittadini e il suo solenne giuramento, il re manda il generale Bava a cercare una via di fuga. Alle 22 circa, Carlo Alberto fugge ignominiosamente a piedi, scortato da bersaglieri e guardie fidate “… travestito da gendarme” passando per Porta Romana già presidiata dalle truppe austriache, che di fatto proteggono la sua fuga. Da qui verso le due, il fuggiasco si dirige a Porta Vercellina:

“…in mezzo a nuove grida forsennate che chiamavano il popolo alla porta medesima, per impedire al re l’uscita... fra spessi colpi di fucile e il suono delle campane a stormo [2]”.

   Nonostante la mobilitazione e la rabbia della gente, la fuga riesce perfettamente. Carlo Alberto, non viene scoperto e riesce a lasciare incolume città, quindi si rifugia velocemente in Piemonte.

 

(Ndr: il comportamento di Carlo Alberto ricorda da vicino quello altrettanto assurdo del 1943, quando il re piemontese e la sua corte fuggirono da Roma dopo un ambiguo comunicato…. Infine, la vicenda richiama anche il patetico tentativo di fuga di Mussolini, del 1945, travestito da tedesco…)

 

     La mattina del giorno sei, l’esercito piemontese, dopo aver consegnato la città alle truppe di Radetzky, varca indisturbato il Ticino per far definitivamente ritorno in Piemonte. Ben prima dell’alba dello stesso giorno migliaia di civili, donne e bambini compresi, fuggono da Milano per paura della rappresaglia austriaca. Ma, al confine piemontese, hanno l’amara sorpresa di essere malamente accolti, infatti:

“i generali avevano già dato la parola d’ordine di insultare i rifugiati…a Novara parecchi dei nostri furono vituperati e battuti come traditori [3]

Uguale triste sorte attendeva i resti delle truppe volontarie che, abbandonata rapidamente Milano, raggiungono Magenta il giorno 6. Poi varcato il Ticino si dirigono verso Trecate dove arrivano il giorno 7, e da lì proseguono fino a Vercelli. In questa città, i resti del 3°reggimento di fanteria lombardo verranno definitivamente sciolti, solo una minima parte, soprattutto ufficiali, verrà riaggregata tra le diverse armi delle truppe regolari piemontesi.

   Così, termina tristemente la I guerra d’indipendenza, ma non l’avventura di Pietro Pacciarini. Scrive Grottanelli:

“un ufficiale (dei volontari) si offrì di raccogliere i militi che invece di deporre le armi, si sentissero di seguitare a combattere contro gli austriaci… Pietro Pacciarini fu di coloro che seguirono il patriottico e guerresco invito… e con altri commilitoni si pose in marcia pel Piemonte. Ma a Torino si parlava poco di continuare la guerra…onde, dopo una inoperosa aspettativa, il Pacciarini stimò opportuno rientrare in Milano”.

   Non abbiamo trovato alcuna documentazione circa l’attività di Pietro in Piemonte, ma ormai la Prima Guerra d’Indipendenza era finita. Lo stesso Garibaldi, dopo alcuni infruttuosi tentativi di organizzare una sorta di guerriglia sul lago Maggiore, abbandona tutto e fugge in attesa di tempi migliori.

   A questo punto si può ben capire come sia stata assurda la posizione della burocrazia italiana che chiedeva a Pietro Pacciarini di dimostrare, carte alla mano, la sua partecipazione alla prima guerra d’indipendenza. Come e da chi avrebbero dovuto essere conservate le carte dei reggimenti volontari? Tra le altre cose, era consuetudine di tutti gli eserciti volontari che, in caso di disfatta, l’elenco dei combattenti venisse immediatamente bruciato per non esporre i cittadini alle rappresaglie del vincitore. Infine, sappiamo bene che durante tutta la campagna di guerra l’esercito piemontese ha sempre disprezzato i volontari, per non parlare del caos che, dopo la sconfitta, ha travolto tutto e tutti, compreso il re che ha dovuto rassegnare le dimissioni, per salvare la sua dinastia. 

Probabilmente, solo chi aveva potuto aggregarsi e integrarsi (soprattutto ufficiali) nell’esercito piemontese avrebbe potuto avere le carte in regola e quindi ottenere il riconoscimento di combattente e il premio in accordo a quanto pubblicato sulla gazzetta ufficiale. Non certo i poveri cristi che, come sempre, pagano per tutti. E Pietro Pacciarini rientra a pieno titolo in questi vasta schiera di “sudditi” … beffati dal destino e dalla Patria.

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Pietro Pacciarini lascia Milano.

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[1] Carlo Cattaneo, opera citata, pag. 255, la frase è del generale Bava

[2] Ibidem, pag 263; la frase riportata è del generale Bava

[3] Carlo Cattaneo pag 264

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